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V Domenica del Tempo Ordinario - C
Is 6,1..8 – 1 Cor 15,1-11 – Luca 5,1-11
Lasciamoci disorganizzare da Dio!
Nell’omelia dei primi vespri della festa della Presentazione del Signore,
Papa Francesco ha concluso con un invito al “ritorno alle origini”,
“di cui oggi si parla tanto nella vita consacrata”.
“Ma non un ritorno all’origine come tornare a un museo, no.
Ritorno proprio all’origine della nostra vita. (…)
“Il primo e più importante “ritorno alle origini” di ogni consacrazione è, per tutti noi,
quello a Cristo e al suo “sì” al Padre.
Ci ricorda che il rinnovamento, prima che con le riunioni e le “tavole rotonde”
– che si devono fare, sono utili –
si fa davanti al Tabernacolo, in adorazione.
Sorelle, fratelli, noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione.
Siamo troppo pratici, vogliamo fare le cose, ma … adorare. Adorare.
La capacità di adorazione nel silenzio.”
Mi sembra che le tre letture di questa domenica, anch’esse,
ci invitino a ritrovare il senso dell’Adorazione.
Questo a partire dalla presa di coscienza della nostra totale inadeguatezza,
della nostra immensa fragilità.
Abbiamo oggi tre racconti, tre testimonianze.
Il primo racconto è quello di Isaia.
È dell’anno 740 circa, prima di Cristo.
Isaia vede il Signore “seduto su un trono alto ed elevato;
i lembi del suo manto riempivano il tempio.” (Is 6,1)
Sopra, ci sono i due serafini che cantano come a due cori la santità di Dio.
Isaia è preso da una emozione estremamente forte.
Grida: “Sono perduto!”
Perché? Perché “sono un uomo dalle labbra impure”. (Is 6,5)
Il mio parlare non è per niente secondo Dio, secondo la grandezza di Dio.
Ed è lo stesso per tutto il popolo.
Tra Dio e me c’è un abisso… una discrepanza infinita.
La seconda testimonianza è una lettera, quella che Paolo scrive ai cristiani di Corinto.
Paolo racconta le manifestazioni di Gesù risorto,
e dice che “ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come a un aborto”,
cioè a uno nato in un modo strano ad un momento strano…
Paolo sa di essere tra “gli apostoli”, ma sa di non esserne degno.
Tra la sua vita precedente e l’essere stato scelto c’è qualcosa di anomalo.
Lo dice chiaramente: “Non sono degno di essere chiamato apostolo”. (1 Cor 15,9)
Perché? “Perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.”
Paolo è stato un fanatico, un talebano…
Sente la sua inadeguatezza…
Come mai il Signore ha scelto me?
Il terzo racconto riguarda Pietro in particolare.
Si è lasciato prendere la barca da Gesù che vi è salito senza chiedere il permesso,
e poi lo invita due volte ad allontanarsi dalla riva.
La seconda, per “prendere il largo” e gettare le reti per la pesca.
E fu una pesca sconvolgente… mai vista. Due barche piene, fino quasi ad affondare.
Quando Pietro vede questa pesca, come reagisce?
Grida di gioia? Promette di fare un bel banchetto per festeggiare? No!
Si getta alle ginocchia di Gesù, dicendo:
Signore, via… “allontanati da me, perché sono un peccatore". (Lc 5,8)
È quasi intollerabile un tale miracolo nella mia barca con quello che sono io.
Non va!
Avete visto come i tre racconti convergono?
Tre volte la stessa storia, più o meno:
il senso della santità di Dio che non è conciliabile con la mia storia.
Non vanno insieme…
“Non sono degno” dice Paolo.
“Sono perduto...sono impuro”, dice Isaia.
“Sono un peccatore” dice Pietro.
Guardate una cosa:
Isaia non è scappato, depresso, nel panico.
Paolo non è fuggito.
Pietro non si è gettato nell’acqua.
Qualcosa ha dato loro la forza di starci.
Anzi, è stato per Isaia l’inizio della missione che era molto scomoda.
Paolo dice che “per grazia di Dio, però, sono quello che sono,
e la sua grazia in me non è stata vana.” (1 Cor 15,10)
E Pietro ha lasciato tutto, anche il suo business, per seguire Gesù.
Quindi questa esperienza di non sentirsi per niente all’altezza e fuori posto
è stata il motore del dono della loro vita al Signore.
È come una ferita al cuore che non guarisce e che ti rende disponibile a Dio.
È così che si entra sia nell’adorazione, sia nella missione.
Il punto di partenza sia nell’adorazione, sia nella missione
non è l’essere bravo o l’avere tutti i titoli del mondo.
Queste cose accompagnano l’adorazione e la missione,
sono dei doni preziosi,
ma il punto di partenza è la discrepanza tra la mia biografia e la santità di Dio!!
È questo che ci butta a terra, ci mette K.O., e ci rende quindi disponibili all’opera di Dio.
Credo che sia molto importante questo.
Perché ci rendiamo conto che quella fragilità, quella povertà,
che c’è nella nostra vita,
magari quello che ci fa vergogna, che non diciamo a nessuno,
è in realtà il punto di partenza sia dell’adorazione, sia della missione.
A patto che lo affidiamo al Signore.
La santità non si edifica sulla bravura.
La santità è una chiamata alla quale tu rispondi
con il sentimento di essere indegno, di non essere per niente all’altezza.
Un giorno, in un convegno sulla donna nella Chiesa,
c’erano delle donne che rivendicavano il sacerdozio.
Lo domandavano… lo volevano.
Una teologa che era molto libera di carattere rispose:
“Amiche mie, nella Chiesa di Gesù, non si domanda un compito:
si risponde ad una chiamata”.
Ecco la santità: rispondere ad una chiamata che ci spiazza.
La Chiesa è fatta così: è un disordine costantemente inventato da Dio!
Come le opere d’arte moderna in cui non si capisce granché!
Dio dis-ordina il nostro ordine!
Vi mette l’ordine dell’amore.
Chiama per amore… e ogni chiamata d’amore è una sorpresa che ti spiazza.
Carissimi, lasciamoci disorganizzare da Dio!
E ricordiamoci che la nostra fragilità è beata.
È l’inizio della nostra santità!
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