L’EUCARESTIA ALLA SCUOLA DI EMMAUS
Insegnamento ai membri del “Monastero wi-fi”
Parlare dell’Eucaristia in questa chiesa della Badia Fiorentina è particolarmente significativo, quando si pensa che Giorgio La Pira partecipò ogni domenica qui alla cosiddetta “messa dei poveri” da lui istituita. Radunando qui in Badia poveri e famiglie agiate, La Pira intendeva ritessere la città a partire dall’Eucaristia.
Questa Badia è quindi un luogo molto speciale per meditare sul mistero eucaristico.
Lo è anche per il fatto che da più di 25 anni si svolge in questa chiesa l’adorazione eucaristica continua.
“Gesù Eucarestia, quale presunzione, quale audacia, parlare di te che, nelle chiese di tutto il mondo conosci le segrete confidenze, i nascosti problemi, i sospiri di milioni di uomini, le lacrime di gioiose conversioni, note a te solo, cuore dei cuori, cuore della Chiesa.
Non lo faremmo per non rompere il riserbo dovuto a così alto, vertiginoso amore, se non fosse proprio perché il nostro amore, che vuol vincere ogni timore, desidera andare un po’ più in là del velo della bianca ostia, del vino del calice dorato.
Perdona il nostro ardire! Ma l’amore vuole conoscere per amare di più, per non terminare il nostro cammino sulla terra senza scoprire almeno un po’ chi tu sia.”1
Queste righe di Chiara Lubich dicono bene con che stato d’animo cercherò di parlarvi oggi del mistero dell’Eucarestia. È un mistero che ci supera tanto, ma tanto…
Rimane pur vero che ogni volta che riceviamo la comunione, diciamo: “Amen!”.
Ma siamo consapevoli della portata di questo “Amen!”?
Scrive Papa Giovanni Paolo II nella lettera enciclica “Ecclesia de Eucharistia” al numero 55: “C'è un’analogia profonda tra il Fiat pronunciato da Maria alle parole dell’angelo, e l’Amen che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore.”
Ogni volta che ci avviciniamo all’Eucaristia e pronunciamo il nostro “amen”, avviene come una piccola annunciazione. Diciamo il nostro Fiat, il nostro: “Avvenga di me secondo la tua parola”, e in noi avviene come una nuova “incarnazione”.
Bisogna quindi che il nostro “amen” sia consapevole, sia ricco di una fede sempre più profonda nel mistero dell’Eucaristia.
Per approfondire questo mistero oggi, partiremo dal Vangelo di Emmaus.
Siamo nel Vangelo di Luca in cui sono le donne, siete voi, a fare il collegamento tra la morte di Gesù e la sua risurrezione. Sono le donne che ci fanno passare,
come naturalmente, dal dramma della croce alla luce della risurrezione.
Gli uomini, in particolare gli apostoli, hanno difficoltà a unire la sofferenza ed il passaggio alla vita.
Fu in particolare il caso di due dei discepoli. Uno si chiamava Cleofa. Dell’altro non si sa il nome. Essi “speravano”. Non sperano più. Per loro, non si può più sperare in Gesù. Gli ideali da lui proposti erano seducenti, ma gli avvenimenti hanno dimostrato che credere in Gesù non ha senso. La sua morte in croce come un maledetto da Dio ha sancito la sconfitta definitiva dei suoi ideali.
Per Cleofa e per il suo compagno, la tomba vuota e la testimonianza delle donne che hanno avuto una visione di angeli, non bastano per riaccendere una qualche speranza. Hanno deciso quindi di lasciare la comunità. Fuggono. Abbandonano.
E scendono, anche concretamente, essendo la strada verso Emmaus necessariamente una discesa da Gerusalemme. Vanno “verso il fondo del proprio fallimento”2.
Sulla via della loro diserzione, non solo parlano tra loro, ma discutono. Il verbo usato da Luca, “antiballein” dice un disaccordo, una tensione. Non è stata una partenza pacifica, anzi!
Rispondendo a Gesù, “hanno sottolineato soltanto l’aspetto negativo delle cose, l’aspetto fallimentare dei fatti avvenuti intorno a Gesù di Nazaret senza scoprire nessuna via di uscita, nessuno spiraglio di speranza. La negatività dei fatti stessi li ha semplicemente sopraffatti.”3
È anche probabile che Luca, citando il villaggio di Emmaus, abbia voluto accennare alla vittoria con le armi che avvenne proprio lì al tempo dei Maccabei. Tornare a Emmaus è, in qualche modo, rinunciare alla via della pace, alla via delle beatitudini, per riprendere le armi, per conquistare con la forza, con la violenza, la tanto sospirata libertà dal dominio romano.
Ora, per Gesù risorto, questi due discepoli sono una priorità. Perché sono in pericolo. Siamo testimoni di come Gesù risorto Buon Pastore vada a cercare queste due pecore perdute. Notiamo, en passant, che nel giorno di Pasqua non vi è nessuna manifestazione eclatante del risorto, bensì un suo discreto travaglio per prendersi cura di ogni discepolo.
Vediamo Gesù accostarsi ai due, “proprio quando toccano il fondo”4.
È un “paroikos”, ossia uno che ha la casa altrove, un migrante. Non è un principe su un carro di lusso, ma un viandante povero.
Gesù prende tutto il tempo necessario per ascoltare i due discepoli; dà loro la possibilità di dire, di esprimere, tutto il loro disagio, il loro malessere, la loro delusione.
Dopo un lungo ascolto, Gesù comincia a insegnare. Il suo punto di partenza è l’Antico Testamento. È, e sarà sempre, la base dell’annuncio pasquale. Gesù, a partire dalle profezie e dai Salmi, li aiuta a giungere ad un altro sguardo sugli avvenimenti degli ultimi giorni. Gesù permette loro di guardare in un altro modo la debolezza, la sconfitta, la fragilità, e la stessa morte. Avrà citato i capitoli 52 e 53 del profeta Isaia, il Salmo 21, il libro di Giona, il libro di Daniele… Gesù insegna a Cleofa ed al suo compagno che bisogna leggere la realtà della vita alla luce delle Scritture. Le Scritture non sono fatte per accumulare delle conoscenze, per diventare dei sapientoni, ma per leggere la storia, con i suoi avvenimenti.
Il centro, il fulcro della catechesi di Gesù è espresso in modo molto chiaro da Luca: “Non bisognava che il Messia sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”(Lc 24,26). Gesù fa capire a questi due discepoli che la necessità della sofferenza del Messia era chiaramente espressa nei profeti e nei Salmi; invece tutti, gli apostoli ed i sacerdoti, i farisei, gli scribi, non volevano altro che un messia trionfante che portasse Israele ad un trionfo politico. Questo si voleva. Questo ci si aspettava. Ed era impensabile che il Messia conoscesse l’umiliazione, la derisione, e la morte di un maledetto. Eppure questo era scritto. Ma c’era come una benda sugli occhi che impediva di accogliere questa verità. L’Antico Testamento lo annunciava, ma erano -siamo- tutti sordi. Era diffusissimo un credo che potremmo dire pagano: Dio ci salverà con un trionfo umano, politico, militare. Invece Dio ci salva con l’amore. Solo l’amore salva il mondo.
Mentre Gesù insegna e apre loro il cuore e la mente, i loro cuori si riscaldano, e “bruciano”. Perché il sì alla salvezza attraverso la sofferenza riscalda il nostro cuore. Perché è verità. Perché dona alla sofferenza il senso di cui siamo assetati.
Arrivando nel villaggio, Gesù fa come se dovesse andare più lontano. Ed è vero che deve andare più lontano, per cercare tutti gli uomini di tutti i tempi. Qui, è prezioso osservare che Gesù non trattiene a sé i discepoli. Al contrario, suscita la loro libertà. Sono essi che chiedono: “Resta qui con noi!”. Gesù non si impone. Non fa pressione su di loro.
A questo punto essi hanno percepito la santità del povero pellegrino, sono molto colpiti dalla sua conoscenza delle Scritture. Ma non lo riconoscono. Il Padre stesso fa sì che Gesù da loro non sia ancora riconoscibile.
Essi non sono ancora in grado di comporre in unità tutti gli elementi: la morte di Gesù in croce, la tomba vuota, la testimonianza degli angeli, la necessità della sofferenza, e la gloria del Messia. Non riescono a unire questi fatti. In loro c’è quindi l’attesa, il desiderio, che questo viandante possa continuare a istruirli: “Resta qui con noi!”.
Di fatto, Gesù rimane con loro, e, una volta a tavola, compie tre gesti: prende il pane, dicendo la benedizione, spezza il pane, dona il pane.
Non è più l’ora dell’insegnamento con le parole, con la catechesi. Subentrano questi gesti concreti attorno ad una realtà: il pane.
È in questo momento preciso che Dio apre loro li occhi. Finora erano impediti di riconoscere Gesù. Ora, viene dato loro di conoscerlo, di conoscerlo attraverso una relazione personale, come ci indica il verbo usato da Luca. C’è stata un' operazione divina che ha fatto sì che lo riconoscessero esattamente nel momento in cui hanno ricevuto il pane nelle loro mani.
E' una esperienza molto concreta: proprio nel momento in cui il pane viene deposto dal Pellegrino nelle loro mani, lo riconoscono. Il suo volto, il suo sguardo, la sua maestà, le sue ferite. È Lui. Non può essere un altro. Hanno il tempo necessario per riconoscerlo con certezza. E appena l’hanno riconosciuto con certezza, “divenne non visibile”. E si ritrovano in due attorno alla mensa. Lui non è più visibilmente presente. Ma cosa hanno nelle mani? Il pane. Il pane da Lui preso, benedetto, spezzato e dato.
Li possiamo contemplare mentre guardano questo pane deposto nelle palme delle loro mani. Ecco la sua presenza. In questo modo è presente. È presente e si dona. Non c’è più una presenza fisica visibile con un volto ed uno sguardo, e, allo stesso tempo, c’è molto di più, perché questa presenza è una presenza che si consegna per essere mangiato. È una presenza in puro dono.
Penso a San Tarcisio che subì il martirio da adolescente, nel 257 d.C., mentre portava l'Eucaristia ai cristiani in carcere. Scoperto, strinse al petto il Corpo di Gesù, per non farlo cadere in mani profane, ma venne ucciso.
Possiamo qui sottolineare che l’evangelista non scrive: “e scompare”, oppure: “se ne va”. Gesù non scompare, non va via, non si allontana, non li abbandona, ma diviene non visibile. Non visibile nella sua corporeità simile alla nostra. Ma ormai visibile in una corporeità che è puro dono.
Come se Gesù dicesse: “La mia presenza, l’avete e l’avrete ormai sotto la forma di questo pane spezzato. Perché mi possiate mangiare. Perché possiate vivere di me. Perché io divenga il cibo della vostra vita.
”Ogni volta che il pane verrà spezzato nel suo nome, ci sarà data la sua presenza corporale, visibile, tangibile.
Questo gesto insieme al processo di riconoscimento opera un cambiamento radicale nel cuore e nella mente di Cleofa e del suo compagno. C’è un prima ed un dopo. Come Mosè con il Roveto Ardente. San Pier Julien Eymard parlava dell’Eucarestia come “roveto ardente che sempre brucia sull’altare.”5
Non c’è più il dubbio, l’incomprensione e la necessità di fuggire. Poco prima, non riuscivano a mettere insieme i pezzi della loro esperienza degli ultimi giorni. Il gesto del pane è la chiave per unire Passione, Morte e Risurrezione.
Questo per un motivo essenziale: nel gesto del pane, è Gesù a prendere l’iniziativa di prendere, di spezzare e di dare.
Nessuno lo costringe a prendere, a spezzare e a dare il pane. È un atto di totale e sovrana libertà.
Qui, bisogna ricordarci del centro, del cuore, della catechesi di Gesù lungo la strada. “Bisognava che il Messia sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”. Il gesto del pane ci fa capire che l’entrare in queste sofferenze è un atto di totale e sovrana libertà. Gesù non è stato sommerso da uno tsunami di odio che l’avrebbe privato della sua libertà. “La mia vita, nessuno me la toglie: la do da me stesso” (Gv 10,18). Ecco quello che esprime il gesto del pane. Il Messia non solo deve soffrire, ma deve scegliere liberamente di soffrire. La sua morte in Croce è un atto di suprema libertà. Senza il gesto del pane, questo non lo potremmo capire. “Bisognava che il Messia sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”. Ora capiamo che questa “sua gloria” sta nel donarsi. La sua gloria è di perdersi per amore. Il gesto del pane è “il grande gesto di Gesù. Gesù, tradito, trasforma il tradimento in donazione. Gesù, ucciso dai suoi carnefici, fa della stessa uccisione un dono per i suoi nemici. Così, la morte è sconfitta con la morte.”6
Il gesto del pane ci fa anche capire che la sua gloria è di essere pane spezzato, martirizzato, insultato, crocifisso, abbandonato… per essere donato, per diventare il nostro cibo. Questa è gloria.
“La sofferenza, accettata al punto di lasciarsi completamente frantumare, diviene il modo più ampio, più totale, di donare agli altri, e di amarli. Esiste forse un amore che non comporti uno “spezzarsi” all’altro? E dunque non bisognava che il Cristo patisse?”7
Il Messia quindi non trionfa secondo il mondo, ma trionfa nello scegliere liberamente di soffrire e nel donarsi per amore. È un altro trionfo. È un’altra regalità. Quella di Dio, quella dell’amore.
Tutto si illumina. Il gesto del pane è la firma di Gesù e ci dona la presenza viva di Gesù.
Innocenzo Gargano commenta: “Gesù entra per rimanere con loro; ma rimane con loro lasciandoli completamente responsabili della propria vita.” Aggiunge: “Gesù in questo momento è come un altro Mosè che, dopo aver condotto il popolo d’Israele dalla schiavitù di Egitto alle soglie della terra promessa, ha il coraggio di salire sul Monte Nebo e di sparire completamente dalla circolazione.” 8
I due discepoli non rimangono a Emmaus, a lamentarsi perché Gesù non è più visibile… ora sanno che Gesù è con loro. Per sempre. È entrato per “rimanere con loro”.
Cosa fanno allora Cleofa ed il suo compagno? Tornano in comunità! Letteralmente: “E risorgendo, in quella stessa ora ritornarono verso Gerusalemme.” È naturale, immediato. Devono condividere l’esperienza fatta. Non possono tenerla per loro. Salgono verso Gerusalemme, lasciano i bassi fondi della disperazione per salire verso la speranza. Non vogliono rimanere a “Emmaus”. Non vogliono più riprendere la via della violenza. Devono tornare nella comunità dei discepoli di Gesù. E ripartono di corsa verso Gerusalemme.
Avviene allora qualcosa di formidabile. I due disertori divengono due strumenti scelti per una missione di primissima importanza, quella di rivelare alla Chiesa il dono dell’Eucaristia. “Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24,35). Ogni membro della comunità aggiunge un elemento del mistero pasquale. Essi portano alla comunità la loro testimonianza del mistero dell’Eucaristia. È splendido che i più miseri dei discepoli, i più infedeli, i disertori divengano dei grandi confessori della fede!
Possiamo pensare qui all’esperienza dei primi discepoli che, alla luce della Resurrezione, cominciano a capire tante cose del ministero, dei segni, delle parole di Gesù. Ad esempio, il discorso sul Pane di vita, che era stato tanto difficile da capire, comincia a diventare luminoso!
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Cosa impariamo noi sull’Eucaristia attraverso questo vangelo, per arricchire il nostro “Amen”, il nostro “Fiat”?
Per prima cosa, capiamo che l’Eucaristia è sempre una iniziativa di Gesù che viene a cercarci. Certamente siamo noi che ci rechiamo in chiesa, ma in fondo l’iniziativa è sempre di Gesù. È Gesù che si fa vicino a noi e prende l’iniziativa di donarsi sotto le specie eucaristiche. Scrive San Pierre-Julien Eymard: “Gesù Cristo vuole anche lui avere il suo memoriale (…) il suo capolavoro, che lo renda immortale nei cuori, che ricordi incessantemente il suo amore per l’uomo. Egli ne sarà l’inventore, l’artefice…”9. E aggiungo: il Padre gli ha permesso di offrirsi in quel modo, pur sapendo tutte le violenze che avrebbe subito nella storia.
Una seconda cosa: capiamo che per entrare nel mistero dell’Eucaristia, bisogna ascoltare la Parola di Dio. Ci vuole sempre l’ascolto di Mosè, dei Salmi, dei Profeti, poi del Nuovo Testamento, per perdere l’idea del Dio onnipotente alla maniera del mondo e per ritrovare la sapienza della Croce. Prima di comunicarci alla Santa Eucaristia, ci vuole la liturgia della Parola.
Infine sottolineiamo che Gesù non forza la porta. Bisogna pregare: “Resta qui con noi!”. Bisogna che la libertà di Dio incontri la nostra libertà. Gesù ci chiama, ci raduna, ci insegna, si offre a noi, ma è necessario anche il nostro sì, il nostro “Resta qui con noi!”
Abbiamo anche capito che l’Eucaristia ci dà la chiave della salvezza di tutta l’umanità.
È una sorgente di luce formidabile, incomparabile. Perché, con i mezzi più semplici, ci viene rivelato il senso del mistero pasquale, ci viene rivelata la libertà regale di Gesù che si dona; ed è glorioso nel suo donarsi.
Abbiamo anche visto che l’Eucaristia ci fa “conoscere” profondamente Gesù. Noi lo preghiamo “Resta qui con noi!”, ed Egli non solo rimane con noi, ma rimane ormai in noi. I due discepoli, nel testo di Luca, dicono di aver “conosciuto” Gesù “nello spezzare il pane”. Vuoi conoscere Gesù? Vai a messa, e prendi lunghi tempi di adorazione, e lo conoscerai intimamente. Lo conoscerai come non conosci nessun altro… perché Lui dimora in te. Sant’Alberto Magno scrive: “(Cristo) ci ha abbracciati con troppo amore, perché ci ha talmente uniti a sé da essere lui stesso in noi, da penetrare lui stesso nelle nostre viscere.”10
Scrive a questo proposito Chiara Lubich: “Era nella logica dell’amore che (Gesù), compiuto un simile passo dalla Trinità alla vita terrena, non vi restasse solo per trentatré anni, pur con una vita divinamente straordinaria come la sua, ma trovasse il modo di rimanere per tutti i secoli e soprattutto di essere presente su tutti i punti della terra nel momento culmine del suo amore: sacrificio e gloria, morte e risurrezione. E vi è rimasto. Escogitata dalla sua fantasia divina, inventò l’Eucarestia.” 11
Abbiamo anche visto come l’Eucaristia ricompone la comunità. A partire dal gesto dello spezzare il pane, i due discepoli disertori non possono fare altro che correre per tornare in comunità. L’Eucaristia esercita una forza centripeta, che si oppone all’opera diabolica centrifuga, che è un’opera molto presente nei nostri tempi, in cui vige come l’obbligo di vivere la dimensione religiosa della vita solo nel privato, come esperienza che diviene intimistica e liquida. L’Eucaristia plasma la comunità.
Vediamo anche che l’Eucaristia ci fa missionari. I due discepoli non rimangono ad “assaporare egoisticamente i piaceri spirituali e quasi sensuali dell’esperienza eucaristica”. Vanno, partono, per testimoniare. Ogni celebrazione eucaristica è un invio. E come Gesù spezza per noi la propria vita, noi non possiamo fare altro che spezzare la nostra vita per gli altri. Quando il sacerdote dice nel nome di Gesù, anzi quando Gesù dice all’altare, Egli stesso: “Prendete e mangiatene tutti!”, possiamo anche noi dire agli altri: “Prendete e mangiatene tutti…”. “Prendete la mia vita, prendete il mio tempo, prendete le mie energie… con la libertà regale che Gesù mi dona, io mi dono a voi”.
Infine, vediamo come l’Eucaristia trasformi la nostra vita. Il cuore freddo, duro come pietra, diviene cuore ardente che brucia dentro di noi. Si passa dalla depressione spirituale, dalla tristezza, alla speranza. Si rinuncia alla via di Emmaus, la via della violenza, per riprendere la via delle beatitudini. Perché si capisce che solo l’amore salverà il mondo dalla violenza.
Aggiungerei che l’Eucaristia è il cibo del monachesimo interiorizzato che volete vivere. Per vivere in mezzo al mondo di oggi una vita segnata dall’unificazione interiore e dal primato della preghiera, dove trovare la forza, se non nell’Eucaristia?L’Eucaristia non ci spinge fuori dalla realtà familiare, lavorativa, sociale o politica. Non nutre uno star bene intimistico ed in fondo egoistico. Al contrario, ci fa diventare una cosa sola con Gesù, nel dono di noi stessi, nel dono della nostra vita per portare nel mondo l’amore che salva.
Quando Gesù ha pregato il Padre, prima della sua Passione, perché ricevessimo il grande dono divino che è l’essere una cosa sola, che è l’amarci gli uni gli altri come Egli ci ha amati, non ha chiesto al Padre che ce ne andassimo lontano dalla società per vivere questo amore in modo più tranquillo, più protetto. “Padre, non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che li custodisca dal maligno” (Gv17,15). L’Eucaristia ci viene data come forza divina per vivere il Vangelo dell’Amore in mezzo al mondo di oggi, al mondo così com’è, con tutte le sue ambiguità, i suoi drammi, e le sue bellezze.
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Nel novembre 2021 la Fondazione Giorgio La Pira ha pubblicato degli appunti che il professore aveva preparato in vista di un libro sull’edificazione del corpo di Cristo; vi troviamo la sua visione della messa in Badia. Parla della “scoperta dell’Eucaristia proprio come la pietra d’angolo in cui si edifica la città, come la roccia su cui si edifica la città, come la luce di cui la città si illumina in tutti i suoi ordini ed elementi, come la causa esemplare da cui trae unità, bellezza, amore e pace la città umana.”12
Fr Antoine-Emmanuel
1 Chiara Lubich, “L’Eucaristia”, Ed Città Nuova, 1977, p.17
2 I. Gargano, Lectio divina sul Vangelo di Luca/1, EDB, 1991 p.9
3 I. Gargano, Lectio divina sul Vangelo di Luca/1, EDB, 1991 p.12
4 idem
5 Citato da:Chiara Lubich, “L’Eucaristia”, Ed Città Nuova, 1977, p.23
6 I. Gargano, Lectio divina sul Vangelo di Luca/1, EDB, 1991 p.15
7 idem
8 idem
9 Chiara Lubich, “L’Eucaristia”, Ed Città Nuova, 1977, p.21
10 Citato da: Chiara Lubich, “L’Eucaristia”, Ed Città Nuova, 1977, p.31
11 Chiara Lubich, “L’Eucaristia”, Ed Città Nuova, 1977, p.18
12 In aedificationem corporis Christi, p.19
In questo momento di desolazione mi arriva come la manna dal cielo.